Se ci incrociamo per strada, anche se non ci conosciamo sappi che avrò per te un sorriso ed un sonoro “salve!”, e se siamo in fila dal panettiere con una scusa inizierò a conversare, e se ti vedo in difficoltà io avrò per te una parola di conforto cercando di strapparti una risata alla prima occasione, e se mi ritroverò a doverti dire dei miei guai lo farò ironizzandoci su, fin quasi a riderci sopra tra una lacrima e un respiro mozzo… perché io sono così.
Io sono “quella compagnona”, quella che “se c’è si sente” e che non perde occasione per brindare: sono un dispenser di allegria, anche quando dentro di me regna l’opposto.
Ma se da un estraneo mi aspetto la stessa leggerezza che io dedico a lui, da chi invece mi conosce, sa di me, del mio dolore, di cosa vivo ogni giorno, non riesco a comprendere ed accogliere la medesima leggerezza e superficialità di rapporti.
Ma tu che mi conosci, mi guardi davvero? Sei mai andato oltre al mio sorriso? Hai guardato alle lacrime dietro ai miei occhi? O ascoltato davvero le mie parole?
Poche persone hanno il coraggio e l’ardire di guardarti dentro, e per queste non servono parole… ma a chi si ferma al mio sorriso dico: tu, che ne sai?
Tu che ne sai…
Che ne sai del dolore che mi porto dentro sin da bambina, dei ricordi di mia madre che mi guardava dalla finestra dell’ospedale o dell’ultimo bacio datole.
Che ne sai di quante rinunce, sacrifici e persino umiliazioni ho macinato per coronare il sogno di diventare avvocato, per poi richiudere tutto di nuovo nel cassetto.
Che ne sai cosa si prova a sentirsi dire dai medici che per tuo figlio non c’è cura, che potrà solo peggiorare o che basta un virus intestinale ad ucciderlo.
Che ne sai dei sensi di colpa che provo verso di lui per avergli dato una vita piena di sofferenza, difficoltà ed emarginazione.
Che ne sai del dolore dei ricordi che vorrei cancellare e che invece non se ne vanno, come quelli di un ago infilato in testa per un prelievo di sangue dopo aver tentato di trovare una vena più e più volte nelle braccia, nelle manine, nei piedini di mio figlio.
Che ne sai quanto mi soffochi questa vita, così limitata persino nei progetti e nei sogni.
Che ne sai del dispiacere che provo a rinunciare ad un’occasione di festa o a parteciparvi rinunciando alla presenza di mio figlio.
Che ne sai cosa si prova a sentirsi gli occhi addosso quando mio figlio urla o ha una crisi in pubblico.
Che ne sai cosa si prova a sentirsi continuamente giudicati da tutti: dalle persone intorno, dai medici, dai terapisti, dagli addetti ai servizi, dai burocrati, che tutto credono di sapere ma che nulla vivono di me.
Che ne sai cosa significa dover andare di fronte ad una commissione per marchiare tuo figlio con la parola disabile.
Che ne sai di quante volte un minuto è stato lungo un’eternità tentando di capire e decidere se correre o meno in ospedale dopo un vomito.
Che ne sai della paura che ogni giorno ho di perderlo e di quante volte mi ritrovo ancora a controllare nel sonno se respira.
Che ne sai di quante volte abbiamo pregato Dio che non ce lo portasse via.
Che ne sai quante volte, invece, avrei voluto avere io il coraggio e la libertà di decidere di lasciare questa vita, chiudere gli occhi e riposarmi, per sempre.
Che ne sai di cosa si prova a svegliarsi la mattina, passarsi le mani tra i capelli e ritrovarti ciocche intere tra le dita dopo giorni di paura ed angoscia per lui.
Che ne sai quante volte mi ritrovo sveglia ad immaginare, senza volerlo, il funerale di mio figlio.
Che ne sai quanto vorrei sognare o fare programmi per il futuro e di quanto, invece, mi costi restare ancorata alla giornata.
Che ne sai…
Che ne sai di quanto lotto, mi informo, studio, mi adopero nel tentativo di dare a mio figlio la possibilità di progredire.
Che ne sai di quanto mi siano fisicamente pesanti certe giornate, divisa tra l’amore che ho per lui, il suo nervosismo e la fatica fisica di restare in piedi dopo una, due e più notti insonni.
Che ne sai quanta forza ci vuole per non cedere alla tentazione di rimettergli il pannolino dopo due anni di pipì addosso giorno e notte.
Che ne sai di quante volte vorrei dire alle persone di non guardarci con sprezzo o pietà, di non ignorarci né temerci, di non tenerci a distanza.
Che ne sai di quante volte ho sperato di sentire mio figlio dire anche solo “mamma”.
Che ne sai di quanta paura ho per il futuro… paura di invecchiare o morire e di lasciarlo in balia di estranei, oppure paura che sia lui il primo a lasciarci e di non andarmene con lui.
Che ne sai… Eppure…
Eppure sorrido. E se mi incontri sarò ancora io a darti per prima il mio sorriso o a porgerti una parola di conforto se ne avessi bisogno… anche quel giorno che dentro vorrei urlare, e piangere, e fuggire.
Perché? Perché far stare bene gli altri mi fa stare bene.
Perché finché il cuore batte e ai polmoni arriva ossigeno c’è sempre speranza che le cose cambino almeno un po’.
Perché le persone che amo meritano il mio sorriso.
Perché nelle persone spero sempre di trovare un’altra me, che sia capace di abbracciarmi, ascoltarmi, sostenermi e darmi forza col suo sorriso.