Non è una bella estate questa per me, e probabilmente non ce ne saranno più, specialmente di spensierate come quelle di un tempo, in cui tutto era più facile e le giornate si riempivano di incontri da progettare, cene da organizzare ed uscite da vivere come fosse l’ultima sera libera della mia vita.
Non lo so, ma… dopo otto inverni trascorsi chiusi in casa per evitare persino una banale influenza, con l’unico scopo di far scampare una crisi metabolica a mio figlio, affetto da una Mme… dopo gli ulteriori due inverni scorsi, chiusi coattivamente in casa per il covid, in cui la paura e la diffidenza si sono fatte ancora più pesanti… dopo le ultime tre estati trascorse in casa per le conseguenze metaboliche su mio figlio di un caldo che ogni anno si fa sentire sempre di più e che rende precaria la sua salute… mi sento in gabbia!
I confini del mio giardino mi stanno sempre più addosso e le distanze si fanno sempre più piccole: quello che era il mio rifugio, ormai è la mia prigione.
Il mondo oltre i limiti
Guardo gli altri vivere: li vedo progettare le vacanze, organizzare cene, programmare incontri e gite fuori porta… mentre io me ne sto alla finestra, a guardare e a dire “noi non ci siamo”, fingendo una serenità che non ho, dietro la quale, piuttosto, nascondo il dolore e la rabbia per l’ennesimo pezzo di vita di cui io e mio marito ci priveremo.
Guardo gli altri vivere sì, mentre io mi auto censuro persino nei desideri negandomi la maggior parte di ciò che riempiva la mia vita prima… prima della malattia di mio figlio e del conseguente autismo.
Una malattia che si è manifestata violentemente a poche ore dalla sua nascita e che ci ha lasciato troppo poco tempo per vivere la gioia assoluta di stringere nostro figlio a noi, per contaminarla subito dopo con tanto dolore e paura.
Questione di priorità
Le priorità della mia vita sono chiare: nessun dubbio né rimpianto o ripensamento possono intaccarle.
Ciò che più conta per me è la vita, la salute, la felicità di mio figlio.
Per lui rinuncerei davvero a me stessa, e in molte scelte ne ho dato prova.
La carriera, l’indipendenza, la libertà ed i sogni se ne sono andati insieme alle aspettative sulla maternità che avevo e che nulla hanno a che fare con la quotidianità che vivo come madre di un bambino disabile.
Non sto dicendo che la genitorialità perda di valore nella diversità: al contrario, si riempie di sfide e fatiche immani assolutamente ricompensate da gioie immense che nel mondo dei normo abili scivolano via inosservate e si perdono nella grande corsa della vita.
Tutto questo però ha un prezzo enorme che, di solito, si concretizza in una lista infinita di rinunce per dedicarsi totalmente al proprio figlio.
Ogni volta che rinunci a qualcosa di importante per te, rinunci ad una parte di te stesso.
Ogni limite, per chi ha una vita già piena di paletti, diventa un dolore in più che si raddoppia nella consapevolezza che quella privazione di oggi, con tutta probabilità diventerà per sempre.
La resa… senza una fine
Accettazione: una parola meravigliosa se non fosse così carica della sofferenza che la precede.
Prima di lei la lotta contro te stesso ed i tuoi desideri, la ribellione all’ingiustizia di ciò cha non hai scelto e che non puoi cambiare e la ricerca affannosa di inesistenti soluzioni.
Ecco che, solo allora, stremato nel cuore e nella mente ti arrendi: guardi alle priorità della tua vita e, nel dare gli ultimi colpi di coda mossi dall’orgoglio e dalle lacrime della sconfitta che fa male… ti rassegni.
Purtroppo la resa di fronte a ciò che non dipende da te e che non puoi condizionare è il tuo boccone amaro da mandar giù giorno dopo giorno.
Quando un villaggio non c’è
Se ti trovi da solo a gestire una situazione familiare complessa e precaria come quella di chi vive la disabilità di un figlio, accettare ciò che è, diventa l’unico modo per sopravvivere ad una vita piena di privazioni.
Sì, perché se è vero che per crescere un bambino ci vuole un villaggio, per crescere un bambino disabile ne servirebbero due… mentre spesso sei solo tu, e l’altro genitore se nel frattempo non si è dileguato, a crescerlo e ad occuparti di lui.
Io e mio marito facciamo squadra nella gestione di nostro figlio, ma intorno a noi nessun villaggio… solo noi.
Quanto respiro mi darebbe una sera a cena da soli con mio marito…
Quanta normalità assaporerei nel poter fare una commissione insieme a lui…
Quanta leggerezza potrei ricevere da una serata con gli amici…
Quanta libertà mi regalerebbe anche il solo pensiero di non temere un invito di fronte al quale ogni volta dover giustificare il mio “no”…
Ma intorno a noi, solo noi.
“Si muore un po’ per poter vivere…”
Nella rassegnazione ogni volta rinuncio ad un pezzo di me, e giorno dopo giorno mi sento svanire, perdere, morire un po’…
Ci provo a riprendermi dei brandelli di quella che ero e a rimetterne insieme i pezzi, anche piccoli… ma resta un’illusione destinata a svelare la sua precarietà alla prima occasione in cui, ancora una volta, l’ennesima parte di me se ne andrà insieme alla rinuncia del momento.
E allora? Forse la chiave è proprio in questa: accettare di svanire, di sgretolarsi e disperdersi, fino a sentirsi vuoti e nudi in un’identità irriconoscibile alla percezione che hai di te stesso… per poi guardarti allo specchio e, in qualche modo, ricostruirti con quello che hai, pezzo dopo pezzo, verso un altro te.