Sono anni che non riempio i tanti vasi e fioriere che ho. Non che non mi piacciano, ma da sempre il mio tempo è talmente risicato che finisco per trascurare piante e fiori che, alla fine, muoiono.
Le mie giornate sono interamente dedicate alla gestione familiare che ruota tutta intorno a mio figlio ed al suo equilibrio psicofisico, dal quale dipende il nostro.
La sua malattia metabolica ed il suo essere autistico ci costringe ad un’organizzazione serrata che lascia ben poco spazio al tempo libero.
Ciononostante non manchiamo di riconoscere ed afferrare al volo i momenti di autentica gioia che la vita ci regala e che custodiamo gelosamente, come fossero lo sbocciare del fiore più bello e più raro che esista al mondo.
E se il mio giardino essenziale mi è sempre bastato a darmi la pace e la tranquillità dello stare a casa, in questo tempo così difficile e precario sento che non mi è più sufficiente.
Non sono le restrizioni del Covid a darmi questa sensazione di povertà ed asfissia: in fondo è da quando Giuliano è nato, dieci anni fa, che proprio per proteggere la sua salute facciamo una vita ritirata.
Il mio malessere oggi nasce da qualcosa di più profondo, da ciò che mi circonda e che mi fa sentire come se vivessi costantemente in un campo minato.
Intorno a me
Ciò che vedo intorno a me mi scoraggia e mi avvilisce.
Le persone sono sempre più chiuse in sé stesse, chine nel duro lavoro di cercare di mantenere un proprio equilibrio in cui non c’è più spazio per l’altruismo, per l’umana pietà, per il senso di giustizia e per tutto ciò che travalichi i confini della propria vita.
I sorrisi sono nascosti e debbono sfidare un’incertezza personale che non li agevola: manca la leggerezza, la bellezza, la gentilezza che nascono spontanee da una serenità interiore che fa fatica a mantenersi stabile, complice una lontananza fisica che non ci appartiene e che ci fa sentire, sempre di più, esclusi dal resto del mondo.
Le istituzioni sono sempre più lontane dalla vita reale delle persone, e se in una posizione di fragilità e di svantaggio era già difficile trovare il proprio spazio, ora è diventata un’impresa epica che devi affrontare da solo… se puoi e se ne hai la forza.
Le difficoltà dei nostri figli, resi disabili da una malattia o da una diversa condizione neurologica, si inspessiscono costantemente: i servizi sono ridotti all’osso, la riabilitazione assomiglia ad una “batteria di polli”, la qualità del tempo lascia il posto alla limitata quantità per la quale, comunque, ti devi costantemente battere.
Gli operatori che si occupano della disabilità, provati come tutti noi da questa situazione, non sono più gli stessi. Si mostrano ancora disponibili, accoglienti e volenterosi, ma se li osservi davvero li vedi stanchi, sfiduciati, demotivati, ingabbiati in una spossatezza mentale che si riverbera dannosamente sul lavoro, a scapito di chi ha più bisogno di aiuto.
Le cure mediche ed i controlli in follow up sono sempre più difficoltosi: prenotare una visita diventa un’impresa anche in libera professione… ed intanto la tua ansia sale, perché per certe patologie non sempre il sintomo arriva prima che sia troppo tardi.
Il rifugio che non trovo
E allora da oggi ho deciso di piantare fiori, tanti fiori.
Viviamo in un periodo storico in cui nonostante il mio operoso ottimismo e l’incessante lavoro con e per mio figlio, mi sembra di lottare contro i mulini a vento senza, però, poter più correre nel luogo che io sentivo sicuro: un luogo dove potermi nascondere, coccolare, riposare e recuperare le energie per lottare e lottare ancora.
Il mio rifugio sono sempre state le mie amiche: due chiacchiere davanti ad un caffè o ad un bicchiere di vino, in una pausa dal mondo che mi bastava per scrollare la fatica di troppo, ridendo ed ironizzando sulla vita quel tanto che ti fa aprire il cuore e respirare per sopportare la fatica di quella giornata.
Il mio rifugio erano le loro risate a bocca aperta ed i loro abbracci, che mi mancano come quello di mia madre.
La mia vita ristretta si riempiva comunque di allegria e compagnia, fatta di cene in casa con le persone a me più care: una casa capace di dare a mio figlio la tranquillità necessaria a concedere a me e mio marito qualche ora spensierata, in cui i problemi si fanno lontani ed il cuore leggero.
Questa casa che, nonostante le mille difficoltà e le limitazioni, è sempre stata piena di amore e di allegria, è stato il mio rifugio di pace più grande in questi anni.
La stessa casa che oggi, invece, non si anima più e mi fa sentire forte il peso della solitudine: una casa che in certi giorni sento come una prigione dalla quale, per salvaguardare la salute di mio figlio, non mi sarà concesso uscire per parecchio tempo ancora.
E allora quest’anno pianto fiori, così che magari io la senta meno stretta per il tempo che servirà.
Pianto fiori
Ho riempito tutti i vasi che avevo, ne ho acquistati di altri, e ne prenderò ancora ed ancora.
Pianto fiori che mi aiutino a vedere oltre questo momento, che col loro fiorire mi facciano dimenticare dell’affannoso tormento che sento intorno, che mi regalino bellezza, speranza, pace ed energia, e che mi aiutino a rifiorire ancora ed ancora, in attesa di rifugiarmi in un lungo abbraccio ristoratore.
Scelgo fiori resistenti e colorati: che sopravvivano alla sete per quei giorni che, sotto il sole cocente, non riuscirò ad occuparmi di loro; che non muoiano se schiacciati dalla rabbia di mio figlio in una giornata no; che siano capaci di rialzarsi da soli dopo un temporale estivo e riempirmi ancora gli occhi di colore.
Pianto fiori che siano come me, che mi ispirino a non fermarmi mai, a non perdere l’autoironia, a continuare a ridere ed entusiasmarmi per ogni piccola cosa, a sperare ancora in un viaggio che probabilmente non farò mai più o nella parola “mamma” che non sentirò mai… perché sperare non costa nulla e, in fondo, non si sa mai.
Così, nell’attesa, continuerò a piantare fiori.