Nella prima parte dell’articolo ho affrontato il delicato tema degli psicofarmaci e di come, in assenza di patologie che ne rendano indispensabile l’uso, mi fossero stati caldamente consigliati, per fronteggiare gli ormai ricorrenti comportamenti problema di mio figlio, autistico a seguito di una malattia genetica rara.
In questa situazione, qual era la scelta giusta da fare? Ricorrervi oppure ascoltare quella voce dentro di me che non ne voleva sapere?

Gli anelli mancanti

Se da un lato non potevo soffocare quella voce interiore che rifiutava l’ipotesi, dall’altro lato non volevo nemmeno privare mio figlio di una possibilità di aiuto, semmai lo fosse stata.

Nell’incapacità di fare una scelta da sola, quindi, mi sono messa alla ricerca di più informazioni possibili, per diradare la nebbia dell’incertezza ed andare verso una decisione consapevole.
Ho chiesto parere a chiunque avesse ben chiara la situazione psichica e clinica di mio figlio e potesse aiutarmi a capire: ai medici metabolici, al cardiologo, alle due neuropsichiatra che lo seguono… e ad un certo punto le informazioni, per me decisive, sono arrivate.

Se è vero che il metabolismo ed il cuore risentono dell’uso degli psicofarmaci, anche in presenza di una patologia come quella di mio figlio è possibile somministrarglieli – se necessario – intensificando il follow up.

Da un punto di vista neuropsichiatrico, invece, gli ultimi studi evidenziano come, in assenza di una patologia neurologica o psichiatrica specifica, gli psicofarmaci non riescano nel lungo periodo a contenere o regolare le risposte comportamentali legate a specifiche situazioni, seppur ricorrenti.
Ad ogni modo, in contingenze particolarmente difficili – in cui la famiglia nonostante ogni sforzo non riesce ad uscire da una situazione di pericolosa violenza – diventa necessario comunque un intervento farmacologico (col rischio, invero, di inibire per questa via la sua volontà e l’esternazione della stessa).

una bambina di spalle seduta dentro uno scivolo chiuso

Ad un bivio

Nella situazione in cui mi trovavo, ero pronta a correre il rischio di inibire in mio figlio la volontà e le emozioni più profonde, seppur così ingombranti e difficili da gestire?
Se il suo benessere è sempre stato la mia priorità, qual era la decisione giusta?
Sarebbe stato meglio, per lui, ricevere un aiuto farmacologico e provare ad avere una vita più serena in un mondo così difficile da codificare e gestire per lui? O sarebbe stato più felice se lasciato vivere nella pienezza delle sue emozioni per dar sfogo a ciò che di vitale ha dentro, nonostante l’impossibilità di essere compreso ed accettato da chi gli è accanto?

Ma d’altro canto, quale benessere può ricevere un bambino che vive con due genitori sfiniti, sfiduciati, con una pazienza inesistente dopo anni, messi costantemente a dura prova da un’aggressività ed un nervosismo crescenti?
Quanto può reggere una famiglia in questa situazione, senza scoppiare in atti di irrimediabile violenza?

Va detto a chiare lettere, infatti, che genitori stanchi, lasciati soli in situazioni spesso inimmaginabili, senza strumenti per trovare una soluzione, in un clima familiare in balia costante della precarietà e della disperazione, tra nervosismo ed aggressività… umanamente, questi genitori, stremati dalla vita e dalle situazioni che solo chi le vive può realmente comprendere, prima o poi risponderanno all’aggressività del figlio con altrettanta violenza, fino ad arrivare spesso a gesti estremi.
Reazioni di rabbia, nervosismo e violenza, non sono molto più pericolosi rispetto ad uno psicofarmaco?

Tante domande e nessuna risposta, tranne quella che potevo dare io.

volto di una donna appoggiata con le mani ad un vetro

La mia scelta “comportamentale”

Alla fine, a determinare la mia decisione, sono state la mia storia personale e le scelte familiari fatte fino a quel momento: prima di intraprendere la via farmacologica, non potevo non tentare il tutto per tutto.
Mi sono data un anno di tempo per tentare (ancora) un intervento comportamentale che potesse modificare in mio figlio, la sua risposta di fronte alle difficoltà.

Prima di allora, infatti, avevamo messo in atto alcune strategie per provare a ridurre le sue reazioni etero aggressive, ma con scarsi risultati. Il motivo di tale insuccesso mi era assolutamente chiaro: fino a quel momento, invero, non avevamo lavorato sul comportamento problema in maniera sistematica e scientifica, ma avevamo semplicemente ignorato la sua risposta comportamentale nell’ingenua convinzione che, come accaduto in altre situazioni, ciò sarebbe bastato ad estinguerla.
Quindi, consapevoli di essere stati proprio noi, col nostro comportamento altalenante, ad aver rinforzato in mio figlio questo modus operandi, ci siamo riorganizzati: armati di un BCBA, un supervisore, determinazione, pazienza e cieca volontà, noi genitori, insieme alle educatrici e alla sua insegnante ci siamo affidati alle tecniche dell’Aba.

C’erano mille domande che attendevano una risposta, senza la quale nessun intervento comportamentale poteva dare i suoi frutti.
Quali erano le situazioni in cui Giuliano aveva reazioni aggressive? Quali erano le situazioni che precedevano tali comportamenti? Qual era la funzione del suo comportamento? Qual era la nostra risposta comportamentale alla sua aggressività? Qual era la strategia da adottare per ridurre e poi estinguere questo comportamento?

Serviva fare una presa dati, studiarne i risultati, applicare le tecniche Aba che nello specifico erano più utili al nostro obiettivo.
Le risposte sono arrivate nel momento in cui, in maniera sistematica e lasciando indietro altre attività riabilitative, ci siamo concentrati sulla modifica del comportamento problematico appreso.
Un lavoro certosino del nostro supervisore, in particolare, al quale devo moltissimi dei progressi e degli obiettivi finora raggiunti… e spero anche questo.

un uomo di spalle in un campo che tiene sulle spalle una bambina

È stata la scelta giusta?

Sono passate solo poche settimane da quando abbiamo intrapreso questa nuova sfida: anche se è troppo presto per pronunciarsi, sento sin d’ora di aver fatto la scelta giusta.

Almeno in questa fase, Giuliano sta imparando a controllarsi: sempre più spesso, quando si arrabbia, anche se nella sua gestualità restano chiare le sue intenzioni, nei fatti riesce a contenersi.
Di tanto in tanto cede ancora al proprio istinto primordiale, ma anche quando lo fa è chiaro che sta perdendo di intensità. Oggi nessuno si sognerebbe più di consigliarci uno psicofarmaco.

Questa scelta deve essere lastricata di profonde consapevolezze: si tratta di un lavoro che deve coinvolgere tutte le figure di riferimento di tuo figlio, nessuna esclusa; è richiesto un impegno costante nel seguire regole prestabilite, che non può mai cedere il passo all’istinto o ad un cedimento se non vuoi vanificare il lavoro fatto fino a quel momento; non avrai mai la garanzia che la risposta comportamentale aggressiva di tuo figlio, una volta estinta, non si ripresenterà mai più in futuro.

La strada verso la modifica del comportamento appreso è ancora lunga, ma nel comportamentismo vince chi non molla e replica, giorno dopo giorno, la stessa risposta: solo in questa maniera si produce, via via, il cambiamento, un po’ come l’acqua che erode la roccia.

Sulla base di questi presupposti, invero, mi chiedo quante famiglie siano realmente in grado di fare la stessa scelta.
Le variabili da considerare sono moltissime: tempo trascorso col proprio figlio, volontà ed attitudine a far parte di un gruppo di lavoro, capacità adattive, autocontrollo, autodisciplina e, prima di tutto, un lavoro su se stessi per predisporsi per primi al cambiamento.
E tra coloro che sarebbero in grado, quanti hanno la forza di volontà e la costanza di farlo?

In questo caso, a parer mio, piuttosto che ritrovarsi in balia di reazioni incontenibili ed ingestibili da parte di tutti, oltre che di tuo figlio, ben vengano gli psicofarmaci: un clima più disteso in famiglia è l’unica cosa che può davvero aiutare un bambino a stare più sereno e a te genitore a nutrire ogni giorno l’amore per lui.

Ma se anche tu hai una voce dentro che ti dice <<no, aspetta, posso ancora tentare altro>>, sai cosa fare… seguila e lascia che siano i giorni futuri a dirti quando è il momento di cambiare strada o, finalmente, di sederti e assaporare la felicità di un nuovo traguardo.
Alla fine, che l’epilogo sia l’uno o l’altro poco cambia: la pace interiore non dipende dal risultato, ma dall’aver seguito ciò che sentivi giusto dentro di te.

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