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Quale senso dietro il termine “coraggio”?

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Avatar Lucia
L'immagine rappresenta una donna che salta da un masso a un altro affrontando una sfida molto impegnativa

Cosa ci viene detto da piccoli

Da bambini siamo spesso incitati ad avere coraggio, affrontare le piccole o grandi novità che durante l’infanzia riempiono spesso le giornate: avere il coraggio di superare quel percorso di montagna impervio, di dire alla maestra tutta la verità su un episodio spiacevole, di chiedere scusa ad un amichetto o semplicemente voler giocare con quello che finora vedevi solo da lontano, con distacco. Gli eroi – maschili o femminili- costituiscono inevitabilmente un modello di coraggio da emulare, coloro che dimostrano che nessuna sfida è impossibile da affrontare. Ma è difficile accontentarsi poi di un senso così semplificato, quando si è più maturi;  qual’è il senso che diamo dunque a questo termine, una volta diventati adulti?

Il coraggio nella vita adulta

Mi viene da dire che avere coraggio significa semplicemente lasciare alle spalle i limiti, i blocchi mentali, le paure, i rimorsi e premere l’acceleratore della vita verso l’obiettivo finale. Qualcosa di simile a quella “pacca sulla spalla” che a volte, nelle giornate più storte, riceviamo da qualcuno vicino a noi, che ci invita a lasciare indietro tutto il brutto e il negativo e ripartire un po’ da capo. Ma la mia esperienza da adulta mi sta insegnando che c’è un passaggio indispensabile al quale non possiamo sottrarci, prima di partire con slancio in avanti: affrontare i limiti, i pesi, le fatiche guardandoli innanzitutto in faccia, dandogliene pieno riconoscimento, senza seppellirli sotto terra per abbreviare il tragitto. Effettivamente è la parte che richiede più energie in assoluto e che a volte sembra cosi faticosa da essere scansata. Posso dire, però, di averlo visto pochi giorni fa, nelle mani e nello sguardo di una mamma.

Una quotidianità speciale

Era domenica e mi trovavo con mia figlia in una piscina della nostra zona, decisamente affollata ma al contempo rilassante. Tra le decine di famiglie, ho notato quella in cui una mamma imboccava la merenda a suo figlio di circa 10 anni, disabile sia fisico che mentale, seduto in carrozzina e contenuto da alcune cinture. In quel gesto, istintivo e primordiale ma anche anomalo per l’età del bambino, ho visto la naturalezza di una mamma che non mette altro in primo piano se non l’amore, totalmente disinteressata dall’essere in un contesto dove in molti si soffermano ad osservare e giudicare il vicino nel minimo dettaglio – cosa che la condizione seminuda dell’estate accentua-. Qualche ora dopo ci siamo trovati vicini a fare il bagno in una delle vasche, vicini abbastanza perché mia figlia notasse la disabilità del bambino, ma anche vicini abbastanza perché entrambe notassimo il sorriso di un bimbo che sarebbe rimasto a godere dei movimenti e giochi in acqua fino al tramonto! Vicini abbastanza, poi, perché io vedessi nel volto di quella madre tanta stanchezza quanta disinvoltura, tanta fatica quanto orgoglio, tanto sacrificio quanta certezza. Ecco, la certezza di fare in quel momento la scelta coraggiosa di non nascondere la disabilità in un contesto pubblico, non nascondere la fatica quotidiana di fronte a chi forse non ne ha mai fatto un’esperienza simile, quella certezza è stata per me la prova evidente di quanta bellezza possa uscire da un contesto d disabilità.

La mia lezione

La mia lezione vedendo queste scene è quella di non fermarsi mai davanti alle sfide, piuttosto: quando la paura divora, quando il dubbio prevale sulle speranze, meglio chiamare le sfide per nome, guardarle a fondo, farle proprie nell’intimo e studiare la prospettiva in cui iniziare ad affrontarle. Se poi servisse l’aiuto di qualcuno che tenendoci per mano rende i nostri passi più saldi, benvenga. Questo è per me il coraggio!