Ero a far spesa in un discount vicino casa, in un giorno assolutamente ordinario. Tra gli scaffali intravedo un viso noto, così mi avvicino un po’ e riconosco lui, Aldo, il bidello dei miei cinque anni di scuola elementare. Mi fermo, lo osservo, e mi blocco come per mettermi in ascolto di quel mix di emozioni che si risvegliano: familiarità, l’affetto, ma anche un po’ di imbarazzo. Avrei voglia di salutarlo e dirgli che a distanza di 25 anni non l’ho dimenticato, ma so che per lui sarebbe impossibile ricordarmi tra i tanti marmocchi con cui ogni giorno aveva a che fare! Così mi limito ad osservarlo, cercando però di capire perché Aldo, uomo di mezz’età con disabilità cognitive, non mi appare alla stessa maniera di allora.
Una strana impressione
Quello che noto è proprio la differenza tra l’impressione di adesso e quella di allora. Mi rendo conto che sebbene Aldo a causa del suo ritardo mentale parlasse poco e male, e fosse perlopiù incaricato a ruoli semplicissimi, come portare in classe i gessi che la maestra aveva richiesto, allora non avevo mai associato la sua persona ad etichette limitanti come disabile, handicappato, o chissà quale serie di commiserazioni dispregiative verso il suo modo di essere. Strano, perché di fatto la sua disabilità era evidentemente parte di lui e ad applicare etichette a volte è proprio un attimo. Eppure per me – e chissà, forse anche per altri bambini come me – lui era Aldo, il più disponibile e solerte bidello che si potesse desiderare al momento di richiedere gessi o fotocopie! Ad Aldo non si poteva che voler bene e, nel rispetto del suo modo di fare riservato, veniva sempre voglia di regalargli un saluto affettuoso o un enorme sorriso.
Bando all’ipocrisia
Lungi da me avere, oggi, quell’atteggiamento poco realistico di chi di fronte ai disabili pensa “sono uguali agli altri, guai a chi li chiama diversi”. La disabilità segna indubbiamente un paradigma di differenza e negarlo sarebbe ipocrita. La questione è un’altra: è possibile far prevalere l’identità globale della persona e soprattutto quello che essa di bello può donarci, sulla semplice classificazione basata su un limite? È possibile mettere in secondo piano quel prefisso peggiorativo ” dis-” che connota l’aggettivo disabile, per far posto al valore positivo e globale dell’individuo in questione?
Secondo me è possibile, anzi doveroso!
Un approccio alternativo
Questo è quello che vedo fare anche a mia figlia: con la visione bambinesca dei suoi 8 anni, pur riconoscendo chi è fisicamente o cognitivamente disabile, ne commenta perlopiù i punti di forza o le azioni quotidiane che gli vede svolgere e riempie i suoi racconti dell’affetto che prova per loro.
Di P., bambino autistico più grande di lei che incontra tra i corridoi della scuola, mi racconta entusiasta le parole che sente pronunciargli, il nuovo ciondolo che ha appeso allo zaino, la canzone che gli ha sentito canticchiare. Di M., bambina con ritardo che frequenta la sua stessa scuola di danza, mi racconta quanto la sorprende la sua attenzione e precisione sempre in aumento, le parole dolci con cui saluta le altre bambine e la spontaneità che sa esprimere con tutti.

Ma noi adulti…
Non posso negarlo: noi adulti abbiamo altri schemi, siamo incatenati dai condizionamenti sociali, dalle infrastrutture mentali e dalle categorie di superiorità e inferiorità che anche inconsciamente la società ci trasmette.
E allora? Non ci resta che subirli?
Semmai..non ci resta che su..perarli! La visione del mondo che Alice ci propone, ha molto da suggerirci su come vivere le relazioni e le scelte quotidiane.
Alice ci dà lo spunto per poter guardare di un disabile il suo valore profondo, l’affetto che ci si può scambiare ed i punti in comune sui quali avvicinarsi.
E se in altri bambini prevale invece la paura, il distacco e la scarsa empatia verso i disabili, è sicuramente per la visione che i genitori hanno dato loro su questa condizione. Motivo in più perché gli adulti si impegnino a gettare via una riduttiva etichetta e sappiano vedere oltre la propria individualità, dandone esempio ai figli.