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La fragilità che conduce all’essenziale

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Avatar Lucia
Una schiera di porte chiuse, nasconde scenari e possibilità

Quando senti parlare del reparto di terapia intensiva, resti con l’idea di qualche evento grave, tragico, che lascia al futuro l’incertezza e la paura, e che apre le porte alla precarietà.
Se non l’hai mai vissuta, pensi a qualche scenario visto forse solo nei film, ma difficilmente immaginabile del tutto.

Per mia fortuna non mi ero mai imbattuta in questo reparto, fino a pochi giorni fa, quando un terribile incidente d’auto ha costretto mio zio, al quale sono molto legata, ad esservi ricoverato in gravi condizioni cerebrali.

Precarietà, dolore e speranza

La mia prima volta in questo reparto è stata un’esperienza molto forte e inedita, ma a cui mi ero in qualche modo preparata mentalmente. Nei giorni precedenti alla in reparto, infatti, ho tentato di comprendere cosa significasse essere in pericolo di vita: ho immaginato tutte le sfaccettature possibili di una situazione del genere e anche letto qualsiasi informazione potesse aiutarmi a comprenderla meglio.  Dover sottostare a continui controlli delle funzioni vitali e aggrappare il futuro ad ogni speranza possibile di sopravvivenza e di buona salute. L’attesa dell’incontro con mio zio è stata motivo di agitazione, ma a posteriori ne sono grata perché mi ha permesso di arrivarci con più coscienza di cosa stavo realmente per affrontare. Dunque, è arrivato il giorno di recarmi effettivamente da mio zio ed entrare in Terapia Intensiva. Il faccia a faccia la realtà ha risvegliato emozioni ancora più intense e nuove.

Al primo impatto è arrivato il senso di rassicurazione – perlomeno parziale- che questo reparto dotato di mezzi tecnologici avanzati e gestito con un alto livello organizzativo e tecnologico poteva dare. I vari suoni usati come codici di richiamo per ogni possibile modifica dei parametri , erano sì allarmanti, appunto, ma anche simbolo di un tempestivo e minuzioso monitoraggio e questo mi faceva pensare che ogni paziente fosse, per così dire, nel posto più sicuro in cui tentare di aggrapparsi alla vita con tutte le forze.
Ma il sentimento che è prevalso è stato il dolore profondo e direi primordiale, basato sul senso di fragilità della persona che avevo davanti: uno stato di abbandono momentaneo della coscienza, dovuto al coma, che fa tornare fisicamente e umanamente nudi al mondo, così come nudi realmente si sta su quel letto, indifesi e dipendenti dai medici, dai macchinari, dai tubi e dal destino, come una creatura appena venuta alla luce, nonostante l’età anagrafica sia tutt’altra.

Domande dall’eco silenziosa

Passare del tempo a fianco ad un malato in terapia intensiva apre inevitabilmente a domande cui difficilmente si riesce a rispondere: come si può accettare che in pochi attimi la vita vissuta in piena salute e libertà diventi limitata e aggrappata ad un filo sottilissimo? Come si può affrontare l’attesa del risveglio dal coma, quando esso probabilmente riserverà sorprese difficilmente accettabili, come una disabilità mentale o fisica? Su quale timido percorso del cuore può basarsi la speranza, laddove la realtà che si ha di fronte genera solo disperazione?


La mia più intensa sensazione, oltre alla vicinanza emotiva ai parenti più cari – su cui non mi dilungo per quanto essa è scontata – è stata invece quella di dolore per mio zio stesso, che pur non rendendosene conto, è cristallizzato in un tempo e uno spazio a me – e a tutti – sconosciuti e sta forzatamente rinunciando alla vita di cui tanto è innamorato, agli affetti e alle vicende che inesorabili gli scorrono attorno, senza che lui ne sia cosciente.
Allora è proprio sull’innamoramento per la vita che fondo ancora oggi la mia speranza, perché quando la salute non permette di goderne a pieno, è ancora più evidente il senso profondo dell’esistenza: la riconoscenza per i doni che gratuitamente abbiamo, la profondità delle relazioni che valgono solo se basate su sincerità e rispetto, l’inutilità di tanti aspetti superficiali della nostra quotidianità, per cui ci affanniamo sproporzionatamente.

Quante volte ci diciamo “questa giornata è stata una tragedia”, ” oggi mi passa la voglia di vivere”, “che fatica insensata ha avuto questo giorno”. Le sento troppo di frequente frasi come queste, riferite a situazioni banali e oggettivamente ordinarie, su cui mi domando cosa ci sia veramente da lamentarsi.
Credo che troppo spesso siamo troppo ben abituati ai doni che abbiamo, alla salute fisica, all’agio di vivere al sicuro e alla libertà di scelta di cui siamo padroni (se solo non fossimo continuamente condizionati dagli altri). Diamo per scontato questi valori e di conseguenza li ricopriamo di altri futili affanni, che di fatto dirottano il concetto di essenziale nel posto sbagliato.

I passi verso l’essenziale

La consapevolezza di queste risorse, che possiamo soggettivamente chiamare destino, doni di Dio o realtà contingente, è “l’immagine mentale” con cui credo si debbano aprire ogni mattina i nostri occhi e il nostro cuore. Consapevoli che ogni occasione per farle fruttare, una volta persa non è scontato che si ripresenti e che questo non è un limite, ma una preziosissima opportunità per selezionare tra i nostri passi solo quelli che veramente vale la pena fare.