Voglio raccontarti un episodio doloroso, discriminatorio ed offensivo che ha riguardato me e mio figlio. Una vicenda che se da un lato spero presto di dimenticare, dall’altro mi ricorda prepotente il mio ruolo di madre di Giuliano: difenderlo dai soprusi, garantirgli una vita piena e non permettere a nessuno di cacciarlo via per la sua diversità!

Mio figlio…

Giuliano è affetto da una malattia metabolica rara, dalla quale è derivato un ritardo cognitivo severo che, nel tempo, ha assunto tratti autistici.

Giuliano non parla: comunica le sue emozioni tramite urla e versi, a volte di disappunto, a volte di gioia, a volte come a volersi coccolare con la voce in un canto tutto suo.

Giuliano esprime i suoi bisogni con gesti corporei ai quali corrisponde un preciso significato (segni) e attraverso un quaderno per immagini (Pecs).

Giuliano ha stereotipie anche fisiche che accentua se si agita: saltella, strizza gli occhi, fa suonare di continuo un gioco che magari ha tra le mani in quel momento.

Giuliano si agita negli ambienti che non conosce o alla presenza di più persone o di forti rumori, luci e suoni, o quando è costretto a lunghe attese delle quali, per la sua condizione, non comprende la finalità.

Giuliano segue il metodo Aba grazie al quale è riuscito ad adattarsi a molti ambienti e situazioni critici… ma non a tutto.

un bambino che guarda fuori dalla finestra mentre piove, foto in bianco e nero

L’occasione

Mio figlio a causa della sua malattia deve sottoporsi frequentemente a visite mediche, esami di controllo e ricoveri ospedalieri programmati: ciò comporta lunghe attese in ambienti nuovi, spesso caotici, angusti, con la presenza di persone che vanno e vengono continuamente… un sovraccarico sensoriale eccessivo per lui che, nella sua condizione autistica, non può che sfociare in una crisi che può protrarsi per più giorni, la quale non fa bene né a lui né a noi.

D’accordo col nostro supervisore Aba, quindi, abbiamo deciso iniziare un training nelle sale d’aspetto sanitarie di modo da desensibilizzarlo a questo tipo di attesa, proprio perché frequente nella sua vita.
Un training che abbiamo concluso con successo e che ci ha permesso di affrontare un’intera mattinata in ospedale per i nostri controlli!

sedie di una tribuna vuote e marroni, solo una rossa occupata da un orsacchiotto che tiene in mano un palloncino rosso

Il fatto

Un pomeriggio come tanti io e Giuliano, accompagnati dall’educatrice, siamo andati in una struttura sanitaria per il nostro training, sereni del fatto che sino a quel momento mio figlio aveva dimostrato di riuscire tranquillamente ad affrontare un’attesa di 30 minuti e che almeno per quel lungo lasso di tempo si sarebbe intrattenuto pacatamente.

Identificata una sala d’aspetto ampia, con appena tre persone, quindi affatto rumorosa né caotica, ci siamo presi il nostro posto e, cronometro alla mano, abbiamo tirato fuori dallo zaino i nostri adesivi da attaccare, perline da infilare e palloncini colorati per intrattenere Giuliano.
Mio figlio, nella sua tranquillità e soprattutto nella sua disabilità, di tanto in tanto emetteva versi di contentezza per quei giochi che stava facendo.

Non erano trascorsi nemmeno cinque minuti dal nostro arrivo – tempo cronometrato per via del training! – che nella sala d’aspetto irrompeva un’infermiera che, tutta stizzita, si rivolgeva all’educatrice dicendole <<Senti! Lo devi portare fuori! Disturba!>>.
Una frase ripetuta più volte, di fronte alla quale rimanevo incredula e confusa, tanto da credere di non aver capito e chiedere a mia volta: <<Prego?>>.
L’infermiera, stavolta rivolgendosi a me, ripeteva duramente questa frase ancora una volta, per poi voltarsi e andarsene in malo modo.
Ma davvero stava cacciando mio figlio perché nel suo modo, nell’unico modo che può, stava “parlando”?
Ad aggravare la sua prepotenza e violenza, arriva un dottore che, allo stesso modo, ci ordinava di andarcene.

Toni alti in mezzo alla stanza, davanti ad altre persone, ci si ordinava come carogne di andare via insieme alla nostra disabilità che, affatto invisibile in mio figlio, non era da loro ben accetta… proprio in una struttura sanitaria, proprio dove la salute fisica e mentale dovrebbe essere curata, protetta, tutelata, e dove tutti, specialmente i più fragili, i più deboli per la loro patologia e condizione, dovrebbero essere accolti.
Non è proprio il colmo?

primo piano di un serpente a sonagli, foto in blu

La reazione

Ho provato vergogna. Ho pianto.

Ho chiesto scusa a mio figlio per questo mondo che non lo vuole, che se ne frega di quanto lavoro e sacrificio ci sia dietro ad un piccolissimo progresso fatto proprio verso l’autonomia, verso la sua unica possibilità di vivere in mezzo agli altri e non nascosto in un istituto… dove i suoi versi e le sue movenze strane non possano urtare la sensibilità di chi ha l’onore di incontrarti, anima pura, ma non se ne rende conto.

Ho pregato le mie amiche di insegnare ai loro figli ad essere diversi da questo: di parlargli della diversità, di avvicinarla a loro, di non trasmettergli l’odio e la discriminazione di chi dietro alla rabbia nasconde la paura di ciò che non conosce.

Ho provato rabbia, delusione, impotenza.

Ho pensato a come vendicarmi, a come far loro del male, a come restituirgli l’umiliazione su mio figlio, a come farli soffrire e piangere come stavo soffrendo e piangendo io.

Poi è arrivato il sentimento da sempre illuminante per me: il bisogno di giustizia.
Una giustizia per mio figlio, per me, per l’educatrice ugualmente umiliata e maltrattata durante il suo lavoro, e per tutti gli altri portatori di handicap fisici o psichici che si sarebbero trovati “ospiti” in quella struttura sanitaria.

Armata fino ai denti di carta, penna ed avvocato, ho messo al corrente i vertici dell’azienda sanitaria dell’accaduto, ho diffidato dal che si ripeta un simile episodio ed ho preteso le loro scuse, che sono arrivate forti e chiare.

Sono state scuse di convenienza? Scuse per evitare che l’accaduto diventasse di dominio pubblico? Certamente, non mi illudo.
Ma intanto “i piani alti” della struttura sanitaria si sono dovuti scomodare, tener buono un legale ed i suoi assistiti che li hanno accusati di atti discriminatori e diffamatori, porgere a più riprese le proprie scuse… e sono sicura che, dopo tutto questo “scomodo”, all’infermiera e al medico una tirata d’orecchie per la loro condotta gli sia arrivata.

uovo che sta per essere schiacciato da un grande martello di legno

E tu? Cosa vuoi fare?

Giustizia è fatta? No… la giustizia non si accontenta di una singola ribellione dinanzi ad un sopruso, ma delle infinite reazioni che ognuno di noi ha il dovere di mettere in atto di fronte alle ingiustizie, alle prepotenze e alle prevaricazioni altrui.

Questo vale per tutti ma ancor di più quando riguarda la disabilità, perché non solo vieni scansato ed escluso anche quando in apparenza accolto, ma ti fanno capire che sei un peso per la società, nella quale non puoi stare senza rientrare nei “parametri minimi di efficienza”.

E tu, cosa vuoi fare, vuoi adeguare te o la vita di tuo figlio disabile al recinto in cui ti spingono volontariamente ad entrare?
E a te che sei stato o sarai spettatore di simili ingiustizie, vuoi continuare ad abbassare lo sguardo?
O è necessario che ognuno di noi reagisca in difesa della vita di chi non può farlo da solo?

Io non ho cambiato il mondo con quelle diffide, né la testa di quelle due persone per me ignobili… però ho restituito a mio figlio il diritto di entrare liberamente in quella struttura proprio come ogni altro essere umano, con o senza disabilità.
Fallo anche tu, sempre.

Condividi: